Gli svedesi Graveyard arrivano in Italia, al Magnolia di Milano, mercoledì 11 novembre 2015: con loro gli Imperial State Electric di Nicke Andersson.
E’ un mercoledì svedese quello che ospita, sul palco del Magnolia, due tra le band più importanti e significative del panorama rock & blues europeo degli ultimi anni, chi per un passato chiamato Hellacopters e chi per il presente, i Graveyard.
Il ritorno in Italia di Nicke Andersson (fondatore degli stessi Hellacopters) è sempre vissuto come un rito, un appuntamento alla quale non si può mancare, soprattutto per coloro che hanno vissuto il rock and roll degli anni Ottanta fino agli stessi Imperial State Electric. Tocca proprio a loro il compito di scaldare ed infiammare i presenti in apertura. Circa un’ora di puro garage dove, a colpi di riff, ci riporta a
quel già citato passato dimostrando che, anche se gli anni passano, quella musica rimane immortale, vergine ed ancora incredibilmente attuale. L’aspetto che maggiormente colpisce è la naturalezza e complicità tra i componenti (veri e propri veterani) nell’esecuzione dei pezzi, come se mai fossero stati provati prima, improvvisati sul palco, guidati da uno spirito sciamano del rock e la folla percepisce il tutto, inebriata. Chiusura con il classico mood Hellacopteriano con stacchi ripetuti e frastagliate soliste per entrambi i chitarristi. Applausi a non finire per un’artista indiscutibile (perché fondamentalmente è lo stesso Anderson il capotreno da anni) che ha riportato in vita in chiave moderna lo spirito del rock and roll degli MC5, il Michigan garage degli anni Sessanta e Settanta, riuscendo quasi a farlo suo e conquistandone le chiavi di accesso per la Stairway To Heaven.
Dopo quest’ora di fuoco è difficile immaginarsi di poter sentire di meglio nelle prossime due ore, ma non appena vedi salire sul palco i Graveyard, ti aspetti solo di essere asfaltato dal loro groove sexteen. Grande l’accoglimento per una band che ha già dimostrato in Europa, e non solo, di aver regalato tantissimo alla musica, dipingendo a colpi di chitarra quattro album veramente uno più bello dell’altro.
In Italia per la seconda volta, per portare il loro quarto capitolo Innocence & Decadence, il loro album più introspettivo, più soul, che vede come pezzo di apertura (anche per il live) Magnetic Shunk, un concentrato “hendrixiano” dove da subito emerge l’impressionante timbrica vocale di Joakim Nilsson che, se da disco risulta esser meravigliosamente surreale, dal vivo lo è ancora di più, potente e malinconica allo stesso tempo, l’elemento che rende diversi i Graveyard da tutte le band del genere. Le chitarre, per superare la potenza della sua voce, hanno bisogno di farsi pompare dai pedali!
La serata procede senza sosta (qualche problemino con i jack ad infastidire lo stesso Joakim), attraversando tutta la discografia della band e volteggiando tra i pezzi più blasonati come la potente Hisingen Blues, che da il nome al secondo lavoro degli svedesi, per poi proseguire con Buying Truth, An Industry Of Murder, Endless Night, Goliath e Lost In Confusion, brano dove si può assaporare e toccare con mano la ruvidità dei riff incalzanti, marchio di fabbrica della band.
Avanti cosi per un’ora filata, senza tregua, con passaggi tra un pezzo e l’altro studiati alla perfezione. Immensi.
Breve bis ed ecco ricomparire in solitario Joakim, illuminato da una fioca luce eterea per la bellissima Stay For A Song, la ballad dell’ultimo album con un’esecuzione, forse, un po’ frettolosa (a dover proprio trovare il punto sulla i) ma decisamente azzeccata per far esplodere il finale in Fool In The End, fino alla chiusura con il loro cavallo di battaglia, la bellissima The Siren, cantata all’unisono da tutto il pubblico che si augura vivamente che quel momento e quella canzone, possano non finire mai.
I Graveyard confermano senza troppi dubbi di essere un “Movimento” di altri tempi per influenze, pensiero e filosofia. Un gruppo che miscela in una pentola da stregone lo Stoner con il rock and roll, la psichedelia con il blues e l’hard rock ma riuscendo, a differenza di tantissime altre band rilegate al genere, a rimanere se stessi con il proprio sound, con la propria identità senza mai cadere nel “già sentito”.
Un’ora e mezza di “psichedelia funesta”, una variabilità di proposta tra un pezzo e l’altro incredibilmente unica e rara per il genere, brani dinamici e graffianti, persino nei momenti più soul. Finisce il live e capisci di aver assistito ad un evento raro, che non si poteva perdere, perché di band cosi ad oggi, non ce sono davvero più.
God Save The Queen…si, ma quella svedese!
Servizio di Fabrizio Cuttano
(18/11/2015) – ©2015 OnDetour – Tutti i diritti riservati
Scrivi